domenica 12 dicembre 2010

RISVEGLIO

"…Io mio cuore brasiliano

Cammina di fianco, zoppica, inclinato

Da nord al sud della vita

È il cammino più ricercato

Quando è notte e la vita silenzia

Apro nel petto tre occhi al cielo

Nasco dalla luce che nasce il giorno…"

- Coração Brasileiro - Celso Adolfo (paroliere di Milton Nascimento)

Oggi è cominciato il mio risveglio. Mi è venuto il desiderio di riprendere a leggere e a scrivere. Dopo alcuni mesi di grande indifferenza, ritorna il mio interesse per la vita. La mia vita. Quella fatta di scrittura.

Non ho mai smesso del tutto ma, ultimamente, ho dedicato poco impegno e sono rimasta indifferente ad ogni stimolo, aspettando che questa tristezza interiore se ne andasse.

Mio padre non avrebbe approvato questa mia forma di tacere. Era frequente farsi creditore delle mie parole. Non sopportava il silenzio. Quando passavano due settimane e non si vedeva recapitare nulla, prendeva la cornetta in mano e faceva il mio numero per chiedermi perché non gli avevo scritto. Lui preferiva la parola scritta rispetto a quella parlata. Lo rivedo ancora tenere per mano un libro, un quotidiano oppure una penna. E se prendeva la penna si fermava per ore, chinato su un foglio di carta sottile, facendola scivolare leggera assieme ai suoi pensieri, fino ad occupare l’ultimo spazio in bianco disponibile. Rimaneva sempre qualcos’altro da dire. Al suo destinatario faceva scaturire quel desiderio di proseguire la lettura, quindi era normale che la missiva di risposta partisse con urgenza.

Quell’ entusiasmo per la parola, di qualunque forma fosse, doveva essere condiviso. Per forza. I suoi rapporti con le persone nascevano appunto da una condivisione. La conseguenza della sua lettura, del suo ragionamento maturato da quella lettura, doveva sfociare in un dialogo con qualcuno. E trovandosi concorde sull’argomento, ecco che talvolta nasceva una bella amicizia, oppure si perpetuava un bel momento tra lui e qualcun altro, o ancora tra lui e me.

E’ normale che rifacendomi a questi ricordi io sia arrivata a capire che nel mio DNA esiste la stessa necessità di dedicarmi alla parola, di condividere e di continuare i miei rapporti umani facendo come mio padre.

Non saranno capolavori, non ho pretese di questo genere. L’importante è che non si fermi questa corrente che mi ha fatto sopravvivere fino ad ora. La corrente che trascina le mie parole come un mare di emozioni e di sentimenti. Mi auguro un annegamento generale, con tanta gioia e molta voglia di vivere.

venerdì 19 novembre 2010

UOMINI

PER QUELLI CHE CI SONO,
PER QUELLI CHE NON CI SONO PIU'
PER QUELLI NON SARANNO MAI

Sono una che legge Vanity Fair, quando capita. Senza essere assidua, guardo cosa offre la copertina e poi porto a casa. Mi piace e m’ispira. E leggendo ho scoperto che oggi è la giornata internazionale degli Uomini. Curioso, no? Victoria Cabello, attrice e presentatrice, è stata invitata a scrivere sul periodico e si è molto stupita, come lo sono io, che il 19 novembre sia la data destinata a questa festa.

Ecco perché mi trovo anch’io a scrivere, riguardo questo argomento che non mi sarei aspettata, ma che avevo in mente già da qualche giorno. Da che se n’è andato un altro vero Uomo, che mi manca tanto.

Noi donne abbiamo un bagaglio culturale riguardo il sesso maschile che è pieno di etichette, in base al nostro vissuto, in base a quanto abbiamo saputo e imparato. Ogni esperienza vale per attribuire un voto agli uomini, da quando sono bambini fino a che diventano vecchi decrepiti, e lo facciamo con molto pudore. Tale bagaglio alla fine ci rappresenta in tutto e per tutto. Segna le nostre vite e, quello che siamo diventate è frutto di quanto abbiamo imparato degli, con e sugli uomini.

Le donne sono etichettate molto di più. Veniamo da una vecchia guerra che percorre tutti i tempi e avanza ancora, inesorabile, segnandoci, tante volte in male, ma anche in bene.

Io ho avuto un padre duro, molto rigido e attaccato alle sue radici. Lo ricordo che non accettava le lacrime, ma non disdegnava le botte. Vivevamo in una società ultra maschilista, dove la donna era considerata una proprietà. Ho sofferto molto per la sua ottusità che vedeva il male ovunque, mentre io cercavo di controbattere con argomenti che lui non era all’altezza di accettare. In fondo non riusciva a dirmi che non avevo ragione, ma certo non mi dava nessuna vinta. Pensavo che facesse così perché ero femmina. Capitava di incontrare altri padri, di cugine, di amiche, ed erano così diversi dal mio. Volevo anche per me quel ragionare convincente che non serve più gridare per farsi capire, né alzare le mani per farsi ubbidire. Da grande ho capito che il suo atteggiamento intransigente era solo dovuto al fatto che voleva contraddistinguersi da tutti gli altri uomini e servirmi da guida.

Invece ho un cugino, creato in una famiglia di padre padrone, che ha avuto cinque figli, di cui solo uno maschio, il penultimo. Bisognava educarlo in maniera diversa, altrimenti non si sarebbe accorto di essere l'unico. E quel poveretto, all’età di due anni non poteva piangere, perché si sentiva urlare dietro: - “ Non devi piangere! Sei un maschio e i maschi non piangono!” – Dio mio, quella frase mi sconvolgeva enormemente. E l’ho sentita svariatissime volte, da altre persone. Spesso parlavo di questo con mio padre e lui non era dello stesso parere. Anzi, aveva il pianto facile, si emozionava come un bambino e lo faceva con tranquillità, serenamente, certo di poter essere compreso da chi gli stava affianco in quel momento. Ecco il mio punto di partenza, il primo vero uomo che ho conosciuto era molto intelligente, forte e duro ma sapeva anche piangere, mostrare le sue emozioni sino alla fine. Da qui era scontato che io cercassi un compagno simile, come fanno tutte le figlie.

Nell’età dei grandi innamoramenti ho conosciuto tanti ragazzi, ma erano sempre quelli di grande personalità che attiravano la mia attenzione. Io mi innamoravo del loro essere forti, del loro dimostrare un grande carattere e un’apparenza sui generis. Non volevo il belloccio di turno, ma quello che sapesse parlare e che dicesse cose coerenti. Volevo uno unico, originale, diverso da tutti gli altri. Quante poesie ho scritto in quel periodo, lo sa solo chi mi è stata vicina. Scrivevo perché soffrivo dell’assenza di questo ipotetico dio uomo, che non arrivava mai. E quelli che c’erano erano sempre irraggiungibili.

Tutto il resto, intorno a me, era solo debolezza, figure tutte uguali, stampate per gli anni goderecci dell’inizio della decade di ottanta. C’erano anche i tipi selvaggi, ancora con l’idea maschilista che la donna deve rimanere a casa mentre l’uomo va a caccia. Che tristezza! C’era quello che parlava troppo, quello troppo malizioso e pieno di testosterone, quello figlio di mammà, quello ignorante… Quindi per un po’ di tempo mi sono sentita veramente sola ed esclusa dal mondo delle belle coppie. Dicevo spesso a mia madre che sarei rimasta single.

Poi il cambio di rotta definitiva. Mi capitò uno che parlava poco, molto coerente, dolcissimo e pieno di attenzioni. Roba da favola. Pensavo che non potesse essere vero che capitasse proprio a me, ma è andata così. Il contrasto assoluto con tutto quello che avevo visto e desiderato in tutti i miei anni. Non era mica un guerriero, né uno spadaccino. Definirlo non saprei e forse è meglio che non lo faccia, per non metterlo in imbarazzo. Fatto sta che lo avevo forgiato nella mia mente, tale e quale, con qualche eccezione nel carattere, ma che vuoi? L’ho preso e l’ho portato a casa così, perché era già troppo. Un uomo vero non ti può capitare due volte nella vita.

E così ho passato i miei ultimi ventisei anni. Ogni tanto mi guardo intorno, forse sono ancora incredula di percorrere questo cammino. E’ tutto in salita perché la strada degli uomini veri è molto ardua. A volte mi sento trascinata, più che coinvolta, senza nessun’altra possibilità, ma se guardo dietro vedo l’abisso, quindi non rinuncio per nulla al mondo. E cammino al suo fianco certa che vale sempre la pena.

Ho conosciuto pochi altri veri uomini, ma uno in particolare, a modo suo, mi ha fatto sentire voluta bene riuscendo ad essere, contemporaneamente, un punto di riferimento. Dopo mio padre nessun altro aveva questo potere. L’ho visto scomparire dalla sua figura di uomo molto attempato e rassicurante qual’era, consumandosi lentamente come una candela. E’ stato presente a tutti gli eventi più importanti segnando la mia vita con i suoi sguardi dolci e affettuosi. Ho sofferto prima ancora che se n’andasse perché sapevo quanto mi sarebbe mancato. E chissà per quanto tempo ancora ne risentirò. Un modo orribile per capire la parola estinto. Uomini così sono sicuramente in estinzione, letteralmente.

In un mondo come quello attuale, dove le apparenze e il potere sono valori assoluti irrinunciabili; dove sia uomini che donne lottano per stare ai vertici di vette senza senso e non riescono a capire il valore del camminare assieme; in questo mondo pieno di tesori e di risorse che svendiamo e disprezziamo, ignari delle nostre colpe di umani ingrati e speculatori, non ci resta che festeggiare. Siamo rimasti pagani e trogloditi con il dono di creare la tecnologia. E’ naturale quindi che, dopo la festa della mamma, del papà, del bambino, dei nonni, della donna (quanto la odio!!!), festeggiamo pure quella degli uomini. Meglio non immaginare in che modo il business s’interesserà dell’argomento.

Quale esclamazione di auguri dobbiamo usare in questo caso? Basterà dire “Auguri, uomini”?

giovedì 14 ottobre 2010

La connesione tra l'ozio e l'essenziale

Quante volte, mentre ci occupiamo del nostro lavoro quotidiano, qualunque esso sia, abbiamo osservato fuori dalla finestra e ci siamo accorti della bella giornata che c’è?

Il cielo azzurro, nemmeno una nuvola, e il sole che illumina quanto si possa vedere intorno. Hai solo voglia di mollare ciò che stai facendo e uscire per godere di quell’aria. Se capita che sia inverno, ancora meglio. Camminare e sentire il vento freddo che batte sul viso è una delle sensazioni più belle, per me. Non penso a nulla perché il pensiero è concentrato solo su quella sensazione. In quel momento è inevitabile non provare gratitudine per la vita che è stata così generosa di cose belle, perché posso notare ogni particolare della natura e non devo fare assolutamente nulla. Basta guardare. Qualsiasi altra cosa io faccia è del tutto inutile. Il mondo è già perfetto così!

Ecco che l’osservazione della natura, degli esseri viventi, potrebbe essere identificata da qualcuno come un momento di puro ozio. Solo chi non ha nulla da fare può permettersi di fermarsi e restare a guardare il mondo che lo circonda. E noi, che siamo abitanti permanenti del pianeta terra, che viviamo nel secolo XXI, che ci battiamo per l’ecologia, che contrastiamo l’individuo che getta la carta per strada o che rovina un bosco con i rifiuti di un picnic, che compriamo elettrodomestici di “classe AAA”, che stiamo attenti alle onde magnetiche e ai cibi “no OGM”, che facciamo la raccolta differenziata e risparmiamo sulle bollette del telefono. Noi che abbiamo le agende piene di impegni – con gli altri – ma dove non constano i nostri desideri. Noi che facciamo le file agli uffici tanto quanto al panificio e perdiamo la pazienza perché andiamo sempre di fretta. Noi che non possiamo perdere tempo e non abbiamo mai del tempo per noi. In verità noi siamo abituati all’etica del “prima il dovere poi il piacere”. Non ci concediamo l’ozio perché non fa parte del programma di una persona che lavora. E' l'etica moderna dell'uomo occidentale.

La natura allora non ha etica? La troviamo esattamente nelle stesse stagioni che viviamo, e vive con noi dal germoglio alla fioritura, dai frutti sino alle foglie secche dell’autunno, completando il ciclo della vita senza darsi pensieri, senza affannarsi, semplicemente vivendo. E vive lo stesso talvolta non fiorendo né dando frutti perché anche la natura a volte si dà una pausa, forse riflette, se il terreno non è buono, se c’è stata molta o poca pioggia, forse ozia. E non sa neanche di farlo. Fa solo quanto per lei è essenziale.

Per l’uomo occidentale invece che cos’è essenziale?

Essenziale dovrebbe essere come avvertire il vuoto. Il vuoto della fame ad esempio. E’ quanto fa desiderare il mangiare. L’essenziale quindi è quello di cui non si può fare a meno, che porta ad essere ansiosi di riempire quel vuoto.

Immagino che, per l’uomo di oggi, l’essenziale sia l’agenda degli impegni, il cellulare che prenda in ogni angolo, arrivare in tempo per non prendere il traffico, essere i primi ad entrare e uscire dall’aereo, i primi in tutte le situazioni: dal prendere il caffè al bar ad essere ricevuti dal dottore di base. Così non ci sono vuoti da riempire. Possiamo dire di avere una vita piena. Vita?

Io dico quanto dice Rubem Alves, il mio scrittore preferito, che mi ricorda che il vero vuoto è quello delle braccia, che fa desiderare un abbraccio, o quello di una persona, che fa sentire la sua mancanza. E dice ancora a proposito di ozio: “Solo chi ha fatto pace con la propria vita e non si è dimenticato dei propri desideri si può concedere le delizie della contemplazione”. E così non sentirsi in colpa, aggiungo.

E concludo con una citazione di Cecília Meireles, poetessa brasiliana degli anni venti, che comprendeva molto bene i rapporti tra l’effimero e l’eterno. Ho cercato di tradurre e dare un senso. Bisogna leggere piano e con molta calma:

“NELLE ALI DI UNA FARFALLA

Nel mistero dell’infinito

si equilibra il pianeta.

E, nel pianeta, un giardino,

e, nel giardino, un’aiuola;

nell’aiuola una violetta,

e, su di essa, un giorno intero.

Tra il pianeta e l’infinito,

l’ala di una farfalla”.


sabato 2 ottobre 2010

E' dai tempi di Nerone che nulla cambia...

3 OTTOBRE 2010

Tra poche ore si deciderà, al cinquanta per cento, il destino del popolo brasiliano.

Più di 130 milioni di persone in tutto il paese voteranno per la Camera con il sistema proporzionale, per il Senato con sistema maggioritario e per la Presidenza con il sistema maggioritario a doppio turno. Quindi, con ogni probabilità si ritornerà alle urne fra un mese, per decidere, tra chissà chi sarà il nuovo Presidente della Repubblica Federativa del Brasile,

Dopo 8 anni di governo Lula (due mandati di 4 anni), il suo partito (PT- partito dei lavoratori) punta sulla candidata Dilma Rousseff, di origini bulgare, che l’ha coadiuvato nell’ultimo mandato come ministro capo della Casa Civile, vale a dire, una sorta di primo ministro. Prima di questo incarico, ha lavorato come Ministro dell’Energie, e prima ancora, come segretaria dello stesso ministero.

La sua ascesa vanta un passato come economista resoluta e pratica che, riconosciuta per i suoi meriti tecnici e gestionali nelle aree economiche, ha scavalcato varie figure maschili nelle cariche dirigenziali sin dai suoi esordi nel governo dello Stato di Rio Grande do Sul.

Dal momento che ha avanzato la propria candidatura, appoggiata dall’attuale presidente, la stampa nazionale ha questionato pubblicamente il suo passato, poiché una legge molto nota impone che le cariche politiche siano date solo a persone di indubbia onestà, comprovata da una immacolata fedina penale e che, a sua volta, dev’essere messa a conoscenza di tutti gli elettori. In barba alla nostra legge sulla privacy, giustamente.

Poco conta però, lo sforzo della classe giornalistica, ampiamente appoggiata dalla classe intellettuale e colta – appena il 20 per cento della popolazione brasiliana -. Innumerevoli pubblicazioni della scheda giudiziaria della signora Dilma hanno collaborato a rendere noto il suo lato oscuro di personaggio pericoloso e subdolo, attiva partecipante nei movimenti politici rivoluzionari e alla lotta armata ai tempi della dittatura militare degli anni settanta (è stata autrice di retate e torture) condannata a sei anni di prigione. Risollevata da un decreto di estinzione del regime militare agli inizi degli anni ottanta conosciuto come AI5, compie solo 2 anni e qualche mese e si trasferisce nel sud del paese dove costruisce una nuova vita e, anno dopo anno, arriverà finalmente al fianco di Luiz Inácio da Silva, presidente della Repubblica del Brasile, eletto già a ottobre del 2002 e rieletto nell’ottobre del 2006.

Al grande pubblico è nota per essere una donna dura che non guarda in faccia a nessuno. Assieme ad un equipe di economisti ha realizzato il progetto Fame Zero e Borsa Famiglia, carte vincenti che hanno rivoluzionato la condizione di miseria del paese, sollevando l’immagine del presidente in carica e conquistando così, a priori, tutto l’elettorato brasiliano e il suo futuro come candidata presidenziale.

Nonostante i vari scandali in cui si è trovata, tra i quali vari episodi di corruzione, viene da Lula indicata come persona di competenza e di polso per governare il paese.

Uno degli ultimi gesti per definire la strategia di Lula per queste elezioni è stato un decreto, firmato dallo stesso alla fine del 2009. Inizialmente il decreto è stato presentato come un Programma Nazionale per i Diritti Umani, ma altro non è che uno strumento che condurrebbe il paese ad una “dittatura mitigata”, come viene chiamata dai giornalisti. Composto di 73 pagine, è stato elaborato da 17 ministeri e prevede l’elaborazione di 27 leggi correlate al tema appunto dei diritti umani (resta sapere di chi), tra le quali una che concederebbe agli invasori di terre il possesso immediato, annullando qualsiasi diritto dei veri proprietari. E’ prevista anche una legge per evitare tutti i simboli religiosi, un’altra per stabilire una commissione di controllo dei contenuti giornalistici, una per stabilire l’imposto sulle grandi fortune, una per la prostituzione che dà diritti lavorativi e fornisce un libretto di lavoro, e una che disconosce l’orrore causato dai guerriglieri politici ai tempi dei regime militare, che così scamperebbero alla prigionia o ad un possibile giudizio penale.

Tra poche ore si deciderà tra un 13, un 43, un 45, un 50 e così via. Sono i numeri dei candidati presidenziali. Solo una semplice decina facile da digitare in un piccolo marchingegno, dietro ad un separè. Per le altre cariche politiche alla Camera e al Senato, sono sempre una serie di numeri che man mano crescono. Solo numeri da ricordare.

Al popolo la decisione del futuro del paese. Com’è giusto che sia.

Mai come ora però, è in gioco un’intera nazione che potrebbe avere un destino così crudele da portare con sé l’intero occidente. L’America Latina ritornerebbe così ai famelici anni settanta, tra “desaparecidos” e potenti governanti, intenti a dominare l’esteso territorio, ancora e sempre ricco di ogni bene.

Nel frattempo, oltre a dover decidere anch’io, come tutti gli altri, mi conforta leggere un autore che mi affascina, che fa poesia vera ma, fa anche politica da sempre, che si sente brasiliano anche quando è costretto a lasciare il paese e vivere in esilio nel secolo scorso.

Si chiama Affonso Romano de Sant’Anna. E’ giornalista e professore, apprezzato perché non improvvisa, ma perché ha una vera coscienza intellettuale.

Trascrivo una personale traduzione di due spezzoni di una sua poesia, tratta dal libro intitolato “Che paese è questo?”, scritto come un manifesto e pubblicato nel 1980. La prima edizione è stata elogiata da scrittori conosciuti come Carlos Drummond de Andrade e Jorge Amado, tra tanti altri. E’ stato ristampato nuovamente quest’anno e non ho resistito a comprarlo.

…”Un paese non può essere solo la somma

Di censure rotonde e chilometri

Quadri di avventura, e il popolo

Non è nulla di nuovo

- è un uovo

che ora genera e degenera

che può essere cosa viva

- o un’ave storta

dipende da chi lo pone

o da chi lo feconda” …

…” Il popolo intanto non è un cane

E il padrone

il lupo. Ambedue sono il popolo.

E il popolo essendo ambiguo

è il suo stesso cane e il lupo.

Una cosa è il popolo, l’altra è la fame.

Se chiami popolo la folla di affamati,

se chiami popolo la marcia regolare delle armi,

se chiami popolo le urla e i fischi dello sport popolare

allora amo di più una mandria di bufali a Marajo’ (isola brasiliana)

la differenza già non esiste

tra le formiche che devastano il mio orto

e le orde di cavallette del ‘48

- che nel carnevale della fame

lo stesso popolo ha celebrato.

Popolo

non può essere sempre il collettivo di fame.

Popolo

non può essere un proselito senza nome.

Popolo

non può essere un diminutivo di uomo.

Il popolo, anzi,

sarà stanco di questo nome,

nonostante il suo istinto lo porti all’aggressione

e nonostante

l’aumentativo di fame

possa essere

rivoluzione.”

So che non tutto il popolo avrà letto questa poesia.

So che il mio voto sarà una goccia in un mare di opinioni diverse dalle mie, ma per dignità, per onore, per dovere civile, vado. Ho fatto la mia scelta. Sono anch’io il popolo.

In bocca al lupo, Brasile!

giovedì 2 settembre 2010

Voltar - Ritornare


Voltei

pro meu lar

e descobri quanto era meu

o lar

o gosto de quem tem

uma casa

a nossa casa

minha ilha feliz

nossa ilha

meu ninho

de amor e de rotina

que vez ou outra abandono

só pra sentir o gosto da volta

o prazer de andar no chão

sob o teto que me viciou

respirando o ar que contém

o cheiro da minha vida



Sono tornata

alla mia dimora

ho scoperto quanto era mia

la dimora

il gusto di chi ha

una casa

la nostra casa

mia isola felice

nostra isola

mio nido

d'amore e di routine

che qualche volta abbandono

solo per sentire il gusto del ritorno

il piacere di camminare sul pavimento

sotto il tetto che mi ha viziata

respirando l'aria che contiene

l'odore della mia vita



País tropical

Fui ao Brasil nestas minhas férias de agosto. Voltei depois de tres anos, com fome de verde e amarelo, com sede de coco verde, querendo rever as cores que fazem vibrar meu coração. E’ sempre uma descoberta, mesmo nos lugares já vistos, sem falar dos que nunca vi antes. Todas as vezes a mesma sensação de pobre emigrante, de filha pródiga que volta ao lar, de deslumbramento e de gratidão. Coisa boa! Uma surpresa, no bem e no mal. Vivo tudo com muita intensidade e a expectativa é sempre superada. Fico enraigada aos sentimentos que me farão voltar nesse país outras infinitas vezes, pois lá está o meu ponto de partida. Descobri porém o mesmo Brasil que deixei tantos anos atrás, e entendi por que o deixei. Meus velhos olhos, que aprenderam a admirar as belezas decantadas pelos poetas nativos, desta vez se entristeceram. Não pelas belezas naturais, porque elas souberam resistir a tudo. Desafiam os tratores, o cimento e o asfalto e crescem expontaneamente, brotando em qualquer lugar, para que todos lembrem que é ela que deve dominar neste lugar único. Na verdade o que me desiludiu profundamente foi o povo. Me senti destacada, diferente, consciente demais pra ficar por lá, como desejei todas as outras vezes. Notei que as pessoas simplesmente se contentam. E não só. São capazes de sobreviver iludindo-se de viver. Optam pela quantidade em vez de preferir a qualidade. Pagam o ruim pelo preço do bom, quando deste só tem a propaganda, com foto, enganosa, de coisa que vale à pena. Passam pelas ruas sorrindo. Será por hábito. Sabe lá Deus o que tem dentro de cada um. E levam apenas um minuto para morrer, num acidente qualquer de uma grande avenida ou numa marginal, achatados como insetos, esticados no asfalto como “adesivos”, sem importância alguma para quem passa e fica olhando, de dentro dos próprios automóveis. Pobres diabos. Os que morrem e os que olham. Esses também se iludem que a morte não passe perto deles, que é coisa que só acontece com os outros. Os brasileiros se acham invencíveis, indestrutíveis, mais espertos. Dizendo isso eu concluo que já não sou mais brasileira. Por que falo “deles” do lado de fora, sou ausente. Não fazem mais parte de mim, não compartilho, não vivo lá. Meu Deus! De onde venho, então?

A minha sede continua. Quero saber o que “rola” em outros ambientes, e assim, nas minhas andanças pelas lojas paulistas observei com muita atenção as prateleiras das livrarias, procurando novos néctares culturais, fontes de inspiração para este coração poético. Comprei sete livros e teria comprado muito mais se não fosse tomada pela tristeza da partida. Mais dois de Rubem Alves para a minha coleção, os quais terei que ler à prestação, como sempre, pra impedir que acabem logo. E’ o que faço quando saboreio um quindim. Comprei Chico Buarque, uma novidade que me atraiu pelo título: “Leite derramado”. Depois tem Lya Luft com “Múltipla escolha” e mais outros que me chamaram a atenção. Eu desejava entender o pensamento atual de quem continua a ser brasileiro, culto, sentado atrás de uma escrivaninha procurando, nas palavras dessa nossa língua maravilhosa, uma definição do que é ser cidadão deste país. Me deparo, então, num autor que devo ter lido em tempos não muito suspeitos, alguma coisa que deixou na memória a recordação desse nome imponente que me soa familiar: Affonso Romano de Sant’Anna. Na prateleira leio o título que vem a calhar com todas as sensações que estou vivendo. “Que país é este?” Estão brincando comigo! E’ possivel? A mesma pergunta que me vinha em mente. Compro e levo pra casa.

E o devorei em pouco mais de um dia.

Tudo o que senti nos dias passados, todas as impressões, todas as emoções, tudo lá dentro como se o que eu estivesse pensando se materializasse no papel. Esse “cara” sente o que eu sinto! Como pode? Escrito em 1980. Completamente atual. Então o tempo não passou? Então eu também estava iludida, exatamente como todos? Todas as ordens e todo o progresso pode servir à comparação com outros países desenvolvidos, sob o ponto de vista material e tecnológico. Nenhuma ordem, nenhum progresso, sob o ponto de vista moral. Nada mudou para quem já enxergava e tinha entendido. Tudo muda para mim agora, que sempre olhei com o coração saudoso o meu país tropical. Mas isso não me impedirá de continuar a amá-lo e desejá-lo. Daqui a alguns tempos poderei voltar.


Paese tropicale

Sono andata in Brasile in queste mie vacanze d’agosto. Sono tornata dopo tre anni che mancavo, con la fame del giallo-verde, con la sete di cocco verde, desiderando rivedere i colori che fanno vibrare il mio cuore. E’ sempre una scoperta, anche nei posti già visti, per non parlare di quelli mai visti prima. Tutte le volte la stessa sensazione di povera immigrante, di figlia prodiga che torna a casa, di meraviglia e gratitudine. Cosa buona! Una sorpresa, nel bene e nel male. Vivo ogni cosa con molta intensità e le aspettative sono sempre superate. Rimango ancorata ai sentimenti che mi faranno tornare in questo paese altre infinite volte, perché è lì il mio punto di partenza. Scopro però lo stesso Brasile che ho lasciato tanti anni fa, e capisco perché l’ho lasciato. I miei vecchi occhi che impararono ad ammirare le bellezze descritte dai poeti natii, questa volta si sono rattristati. Non per via delle bellezze naturali, perché quelle hanno saputo resistere a tutto. Sfidano i trattori, il cemento e l’asfalto e crescono spontaneamente, ovunque, perché tutti si ricordino che è la natura a dominare questo luogo unico. In verità ciò che mi ha deluso profondamente è stato il popolo. Mi sono sentita distaccata, diversa, troppo cosciente per rimanere lì, come ho desiderato fare tutte le altre volte. Ho notato che le persone semplicemente si accontentano. E non solo. Sono capaci di sopravvivere illudendosi di vivere. Scelgono la quantità invece della qualità. Pagano il brutto al prezzo del buono, quando di questo esiste solo la pubblicità, con foto, ingannevole, di qualcosa che può valere la pena. Passano per le vie sorridendo. Sarà per abitudine. Sa solo Dio ciò che ognuno ha dentro. E impiegano solo un minuto per morire in una grande via o in un grande raccordo, schiacciati come insetti, stirati sull’asfalto come degli adesivi, senza importanza per le persone che passano e guardano, dentro le loro automobili. Poveri diavoli. Quelli che muoiono e quelli che guardano. Anche questi s’illudono che la morte non passerà, che sono cose che accadono solo agli altri. I brasiliani si credono invincibili, indistruttibili, più furbi. Dicendo così concludo che non sono più brasiliana. Perché parlo di loro dall’esterno, sono ormai assente. Non fanno più parte di me, non condivido, non vivo lì. Mio Dio, da dove vengo allora?

La mia sete continua. Voglio sapere cosa accade in altri ambienti, e così, nelle mie camminate tra i negozi di San Paolo, osservo attentamente le mensole delle librerie, cercando nuovi nettari culturali, fonti d’ispirazione per questo cuore poetico. Ho comprato sette libri e forse avrei comprato di più non fosse la tristezza per la partenza. Altri due di Rubem Alves per la mia collezione, i quali dovrò leggere “a rate”, come sempre, per impedire che finiscano presto. Faccio così anche quando mangio un dolce che mi piace troppo. Ho comprato uno di Chico Buarque, una novità che mi ha attratta dal titolo: “Latte versato”. Poi c’è Lya Luft con il suo “Multipla scelta” e altri ancora che mi hanno attirato l’attenzione. Desideravo capire il pensiero attuale di chi continua ad essere brasiliano, colto, seduto dietro una scrivania cercando, nelle parole della nostra lingua meravigliosa, una definizione dell’essere cittadino di questo paese. Mi ritrovo allora un autore che devo aver letto in tempi non molto sospetti, qualcosa che mi ha lasciato nella memoria il ricordo di questo nome imponente che mi suona famigliare: Affonso Romano de Sant’Anna. Sulla mensola leggo il titolo che casca a fagiolo con tutte le mie sensazioni. “Che paese è questo?” Stanno scherzando? E’ possibile? La stessa domanda che mi ponevo. Lo compro e lo porto a casa.

L’ho divorato in poco più di un giorno.

Tutto quanto ho sentito nei giorni passati, tutte le impressioni, tutte le emozioni, tutto è lì dentro come se ciò che penso si materializzasse sulla carta. Questo tale sente quel che io sento! Come può essere? Scritto nel 1980. Completamente attuale. Allora il tempo non è passato? Allora anch’io mi ero illusa, proprio come tutti gli altri? Tutti gli ordini e tutto il progresso può servire per essere paragonato ad altri paesi sviluppati, sotto il punto di vista materiale e tecnologico. Nessun ordine e nessun progresso, sotto il punto di vista morale. Nulla è cambiato per chi aveva già visto e capito. Tutto cambia per me ora, che ho sempre guardato con occhi nostalgici il mio paese tropicale. Ciò non m’impedirà di continuare ad amarlo e desiderarlo. Fra qualche tempo potrò ritornare.

giovedì 10 giugno 2010

IO, FARFALLA

E io mi trasformai...

Ero come un bruco lento e impacciato

affamato e vorace

Rassegnato a seguire un unico cammino

Inconsapevole

Mi trovai rinchiusa in un bozzolo

delicato e trasparente

Da lì potei guardare il mondo

passare

E senza capire il destino

costretta dalla prigionia

sofferente

attendevo il giorno della libertà

Sognavo di svolazzare

come gli uccelli nemici

che assistetti nei campi

ingurgitare i miei simili

Tutt’un tratto mi accorsi

si ruppero i tesi fili

stretti intorno a me

mi allungai come se avessi braccia

mi stirai come se avessi muscoli

si accesero tutti i miei colori

E vidi le mie ali

come d’incanto ergermi

e portarmi in luoghi mai visti

E m’innamorai...

RIAPRO LE MIE FINESTRE
PER SEGNALARE
L'INCONTRO INATTESO,
MAI SOGNATO,
PERO' DESIDERATO

L'EVENTO PROMOSSO DA
STEFANO DONNO

Per la rassegna: "Il gusto per la cultura... è mondiale!"
GIORNATA ITALO-BRASILIANA al CIBUS MAZZINI
Via Lamarmora, 4 - Lecce (angolo Piazza Mazzini)
20 giugno 2010 - ore 18.30
Presentazione del libro
BUONE DA SPOSARE
di Adriana Maria Leaci

... chissà come sarà?!
... chissà chi verrà?!


sabato 23 gennaio 2010

Born free

Nata libera. Era il titolo di un film degli anni sessanta. Una leonessa cresciuta in cattività e poi liberata. Mi è venuto in mente, dopo un fatto che ha segnato la mia giornata incontrando l’ennesimo immigrante. Uno di quelli senegalesi o nigeriani. Non sai mai da dove vengano. Sai solo che viene verso di te cercando di vendere le solite cose che non hai bisogno e che insiste tanto per farti comprare. Per un attimo pensi di dire un no secco, che lui aggiungerà agli altri e altri ancora, già sentiti infinite volte. Poi la tua coscienza ti grida di non essere egoista, di cambiare gesto. E’ un grido sordo che potrebbe passare inosservato perché nessuno può sentire. Intanto hai già trovato la soluzione, non costa nulla accontentarlo, gli dai una moneta perché si prenda un caffè e lui (quanto sia bisognoso sa solo Dio, o Alah) ti regala uno di quegli oggetti inutili, anzi insiste, perché non vuole l’elemosina. Vorrebbe solo vendere qualcosa, è il suo lavoro. Ha abbastanza dignità in corpo per negare l’inutile e meschina pietà di quel momento. Ti ringrazia e se ne và. Io continuo il mio cammino e la mia solita vita ma, quell’uomo mi è entrato nel cuore e non lo dimentico. So che avrei potuto dare di più ma non l’ho fatto. Sono stata codarda. A volte temo di aprire la borsa e di essere aggredita, di aprire troppo il cuore, di far uscire troppe buone intenzioni, di essere fraintesa. Che assurdità! Che contraddizioni! Proprio io che mi ribello sempre ad ogni cosa.

Pensavo all’Africa, alle sue svariate nazioni con gli stessi problemi. Agli anni settecento quando dal quel continente il popolo pacifico e indifeso fu ridotto in schiavitù. Dopo un secolo di martiri, quando gli schiavi furono resi liberi erano già legati ad un’etichetta di inferiorità e di preconcetti che continuò nel tempo, sommandosi a nuove discriminazioni. Divennero liberi ma per sempre schiavi della mente contorta di chi fa distinzione tra le razze. La loro storia si arricchisce di ingiustizie ogni giorno, passando per i fatti di Rosarno, proprio a casa nostra, dove il disgusto continua a fare il suo corso, per finire ad Haiti, ex paradiso delle vacanze dove ora i ricchi puliscono le loro coscienze facendo raccolte di beneficienza. Il minimo. Rosarno era già un luogo dimenticato prima di diventare argomento di prima pagina. Fra un paio di mesi non se parlerà più. E Haiti era già povera abbastanza da richiamare la carità del mondo prima dell’ecatombe. Dopo l’attuale fragore, tutto tacerà nuovamente. Le coscienze occidentali seguiranno le rotte solite, fino al prossimo richiamo di umanità. E’ lungo il silenzio intorno ai piccoli.

Mi ritorna in mente il significato di libertà e, ragionando, concludo che nemmeno io sono libera. La mia coscienza è legata a dei messaggi che vengono dal passato, quand’ero ancora una bambina e si sentiva parlare dell’uomo nero. Quell’orribile diceria che m’incuteva una tale paura per cui non lasciavo la mano dei genitori per nulla al mondo. Crescendo ho capito subito da che parte stare. Mi sono legata agli affetti, alla verità e alla giustizia. Ho lasciato perdere tutto il resto. Beh, non proprio tutto. Ho capito che avrei potuto fare molto di più se solo non fossi stata legata a dei pregiudizi. Se quei pochi ma subliminali messaggi della mia gioventù, che mi sono entrati dentro come un veleno silente, non mi avessero legata, la mia coscienza oggi sarebbe più libera ed io potrei fare di più, anche da sola. Magari avrei fatto cose per cui sarei stata criticata dagli altri, ma avrei lottato per quell’altra voce della mia coscienza che mi dice di non essere soddisfatta. Quella voce che mi sussurra e mi rinfaccia la codardia che blocca i gesti più sensati e più sinceri. Quella stessa voce che vorrebbe gridare alle ingiustizie che subiamo ogni giorno. Ma non lo faccio. Senza rassegnarmi, parlandone, spero di riuscire a fare di più.

Sono nata con la pelle bianca. Questo ha facilitato molto la mia vita. Ma ciò non mi ha resa libera.

domenica 17 gennaio 2010

Buone da Sposare

Presentazione ufficiale. Roma, 15 gennaio 2010

Lettura del racconto "MARIOLINA", pag.261

UN GIORNO SCONOSCIUTO

Mariolina non si ricordò mai quando era nata, non festeggiò mai un compleanno, fece i conti solo con il calendario, e ogni trentuno dicembre sapeva che era passato un altro anno della sua vita.
Il ricordo più remoto era di quando aveva dieci anni e stava in un orfanotrofio, assieme ad altri bambini. Era tra le bambine più grandi e si occupava delle più piccole, quindi era proprio lei a regalare affetto e dolcezza a chi ne aveva bisogno. Non si sentiva infelice perché ci aveva fatto l’abitudine in quella grande casa. Non conosceva le carezze di una mamma, ma la sognava sempre, anche in pieno giorno. Immaginava d’essere tra le sue braccia e ricevere un grande e caloroso abbraccio. Come quegli abbracci che dava alle sue compagne, quando cadevano, si facevano male ed erano tristi.
Con molta difficoltà una suora tirava su quell’orfanotrofio. Talmente improvvisato che facilmente andavano a letto senza cena, dando la precedenza ai bambini malati e più piccoli. La sopravvivenza come un gioco a sorte, perché solo la natura di ognuno poteva stabilire chi ce la faceva, oppure no.
A volte, nel buio della notte, Mariolina sentiva lo stomaco che si lamentava, quasi gridando, e si vergognava, pregando che gli altri stessero dormendo e non sentissero tutto quel rumore. Non capiva che non era colpa sua. In silenzio faceva le preghiere imparate a memoria durante le lezioni di catechismo, e chiedeva soltanto di potersi addormentare senza sentire più fame. Veniva su molto magra e minuta, si vedeva che soffriva, ma non era capace di lamentarsi, né di chiedere nulla.