sabato 23 gennaio 2010

Born free

Nata libera. Era il titolo di un film degli anni sessanta. Una leonessa cresciuta in cattività e poi liberata. Mi è venuto in mente, dopo un fatto che ha segnato la mia giornata incontrando l’ennesimo immigrante. Uno di quelli senegalesi o nigeriani. Non sai mai da dove vengano. Sai solo che viene verso di te cercando di vendere le solite cose che non hai bisogno e che insiste tanto per farti comprare. Per un attimo pensi di dire un no secco, che lui aggiungerà agli altri e altri ancora, già sentiti infinite volte. Poi la tua coscienza ti grida di non essere egoista, di cambiare gesto. E’ un grido sordo che potrebbe passare inosservato perché nessuno può sentire. Intanto hai già trovato la soluzione, non costa nulla accontentarlo, gli dai una moneta perché si prenda un caffè e lui (quanto sia bisognoso sa solo Dio, o Alah) ti regala uno di quegli oggetti inutili, anzi insiste, perché non vuole l’elemosina. Vorrebbe solo vendere qualcosa, è il suo lavoro. Ha abbastanza dignità in corpo per negare l’inutile e meschina pietà di quel momento. Ti ringrazia e se ne và. Io continuo il mio cammino e la mia solita vita ma, quell’uomo mi è entrato nel cuore e non lo dimentico. So che avrei potuto dare di più ma non l’ho fatto. Sono stata codarda. A volte temo di aprire la borsa e di essere aggredita, di aprire troppo il cuore, di far uscire troppe buone intenzioni, di essere fraintesa. Che assurdità! Che contraddizioni! Proprio io che mi ribello sempre ad ogni cosa.

Pensavo all’Africa, alle sue svariate nazioni con gli stessi problemi. Agli anni settecento quando dal quel continente il popolo pacifico e indifeso fu ridotto in schiavitù. Dopo un secolo di martiri, quando gli schiavi furono resi liberi erano già legati ad un’etichetta di inferiorità e di preconcetti che continuò nel tempo, sommandosi a nuove discriminazioni. Divennero liberi ma per sempre schiavi della mente contorta di chi fa distinzione tra le razze. La loro storia si arricchisce di ingiustizie ogni giorno, passando per i fatti di Rosarno, proprio a casa nostra, dove il disgusto continua a fare il suo corso, per finire ad Haiti, ex paradiso delle vacanze dove ora i ricchi puliscono le loro coscienze facendo raccolte di beneficienza. Il minimo. Rosarno era già un luogo dimenticato prima di diventare argomento di prima pagina. Fra un paio di mesi non se parlerà più. E Haiti era già povera abbastanza da richiamare la carità del mondo prima dell’ecatombe. Dopo l’attuale fragore, tutto tacerà nuovamente. Le coscienze occidentali seguiranno le rotte solite, fino al prossimo richiamo di umanità. E’ lungo il silenzio intorno ai piccoli.

Mi ritorna in mente il significato di libertà e, ragionando, concludo che nemmeno io sono libera. La mia coscienza è legata a dei messaggi che vengono dal passato, quand’ero ancora una bambina e si sentiva parlare dell’uomo nero. Quell’orribile diceria che m’incuteva una tale paura per cui non lasciavo la mano dei genitori per nulla al mondo. Crescendo ho capito subito da che parte stare. Mi sono legata agli affetti, alla verità e alla giustizia. Ho lasciato perdere tutto il resto. Beh, non proprio tutto. Ho capito che avrei potuto fare molto di più se solo non fossi stata legata a dei pregiudizi. Se quei pochi ma subliminali messaggi della mia gioventù, che mi sono entrati dentro come un veleno silente, non mi avessero legata, la mia coscienza oggi sarebbe più libera ed io potrei fare di più, anche da sola. Magari avrei fatto cose per cui sarei stata criticata dagli altri, ma avrei lottato per quell’altra voce della mia coscienza che mi dice di non essere soddisfatta. Quella voce che mi sussurra e mi rinfaccia la codardia che blocca i gesti più sensati e più sinceri. Quella stessa voce che vorrebbe gridare alle ingiustizie che subiamo ogni giorno. Ma non lo faccio. Senza rassegnarmi, parlandone, spero di riuscire a fare di più.

Sono nata con la pelle bianca. Questo ha facilitato molto la mia vita. Ma ciò non mi ha resa libera.

domenica 17 gennaio 2010

Buone da Sposare

Presentazione ufficiale. Roma, 15 gennaio 2010

Lettura del racconto "MARIOLINA", pag.261

UN GIORNO SCONOSCIUTO

Mariolina non si ricordò mai quando era nata, non festeggiò mai un compleanno, fece i conti solo con il calendario, e ogni trentuno dicembre sapeva che era passato un altro anno della sua vita.
Il ricordo più remoto era di quando aveva dieci anni e stava in un orfanotrofio, assieme ad altri bambini. Era tra le bambine più grandi e si occupava delle più piccole, quindi era proprio lei a regalare affetto e dolcezza a chi ne aveva bisogno. Non si sentiva infelice perché ci aveva fatto l’abitudine in quella grande casa. Non conosceva le carezze di una mamma, ma la sognava sempre, anche in pieno giorno. Immaginava d’essere tra le sue braccia e ricevere un grande e caloroso abbraccio. Come quegli abbracci che dava alle sue compagne, quando cadevano, si facevano male ed erano tristi.
Con molta difficoltà una suora tirava su quell’orfanotrofio. Talmente improvvisato che facilmente andavano a letto senza cena, dando la precedenza ai bambini malati e più piccoli. La sopravvivenza come un gioco a sorte, perché solo la natura di ognuno poteva stabilire chi ce la faceva, oppure no.
A volte, nel buio della notte, Mariolina sentiva lo stomaco che si lamentava, quasi gridando, e si vergognava, pregando che gli altri stessero dormendo e non sentissero tutto quel rumore. Non capiva che non era colpa sua. In silenzio faceva le preghiere imparate a memoria durante le lezioni di catechismo, e chiedeva soltanto di potersi addormentare senza sentire più fame. Veniva su molto magra e minuta, si vedeva che soffriva, ma non era capace di lamentarsi, né di chiedere nulla.