Quando avevo quell’età iniziavo appena ad aver l’interesse per la letteratura.
Scrivevo già poesie e piccoli componimenti, in tutto segreto, perché temevo che le mie parole non piacessero e che gli occhi critici mi avrebbero censurata. In quei tempi coglievo stimoli a scuola o dalla tv. L’ambiente austero di casa mi offriva pochi spunti.
Desideravo enormemente avere accesso libero in librerie e biblioteche, e lo dimostravo dallo sconforto di non aver soldi abbastanza per fornirmi dei libri di autori che avevo sentito parlare, motivo per cui mia madre mi suggerì persino un indirizzo di scuola superiore, che mi avrebbe incamminato verso la professione di bibliotecaria. Ugh!
Era così lontano dalle mie vere aspirazioni che inorridivo al solo pensiero. Immaginavo la grande sala colma di scafali e libri e tanti schedari con tutto il suo contenuto catalogato, ed io, vestita con una gonna lunga sotto il ginocchio, una camicetta bianca a collo alto, i capelli raccolti a tupé e gli occhiali in punta di naso, con l’aria grigia di chi comprende il silenzio come benessere assoluto.
Non era proprio il caso!
Alla scuola media avevo dei professori molto in gamba, particolarissimi nel loro modo di essere, ma talmente aperti mentalmente che mi insegnarono cose che non dimenticherò mai più.
Erano persone che avevano nell’animo l’ideale di infondere la cultura nei giovani e di renderli partecipi; scorgere in loro la libertà di pensiero, alla quale erano stati privati da quando il paese viveva un momento politico molto delicato.
Due professoresse, in modo particolare, mi sono rimaste impresse nella mente: quella di Storia e quella di Inglese.
La professoressa di Storia era una piccola donna, di cinquant’anni o più, che andava vestita sempre alla moda, con molta disinvoltura, dimostrando di avere il senso innato dell’eleganza. Le sue lezioni assomigliavano a dei racconti di favole e tutti gli allievi rimanevano ad ascoltarla in silenzio, concentrati e affascinati dai fatti accaduti.
Era in gamba non solo ad esporre le sue conoscenze, ma, forse, per meglio fare il suo mestiere, usava l’esperienza di innumerevoli viaggi, una passione che l’aiutava a descrivere i luoghi storici con molta minuzia, immergendosi nel tempo. Più di chiunque altro, aveva pestato i suoli di tutto il mondo, per varie volte ed era così che, ad esempio, la storia dell’Antica Grecia diveniva un salto nella memoria, come se lei fosse stata presente, seduta là, tra i gradini del Parthenone di Atene, che aveva visitato. Con la storia dell’Egitto, mi sembra di vederla ancora, a parlare di Tutankhamon, come se fosse stato un parente.
Quando andavo sui libri a studiare per le interrogazioni, trovavo le sue parole, ripetute persino nelle virgole, con l’interpretazione esatta dei momenti storici, quasi come se trovassi il suo stesso trasporto e tutto l’amore per l’umanità che l’aveva condotta ad essere chi era.
E’ stata lei a passarmi il desiderio della conoscenza e la sete per il sapere e, comprendendo l’effetto che faceva su di noi, alunni, ci consigliava letture sia di storia che di filosofia. Nessuno dava dimostrazione di non apprezzare tutto quello.
Era vedova e ricca e insegnava per puro piacere, dimostrando un’ideale fermo, radicato su studi approfonditi.
Si era sposata molte volte e, come nei libri gialli, era un mistero il fatto che fosse sempre lei a seppellire i mariti. Di questo ne faceva un vanto o un aneddoto, non ho mai capito bene.
Spendeva tutti i suoi averi in una vita piena di comodità, senza figli al seguito, circondata dalla servitù, viaggiando, indossando capi firmati e costosi, senza trascurare mai l’aspetto fisico. Infatti, con tutta sincerità, affermava spesso di voler morire giovane, pertanto ogni qual volta notava un cedimento del proprio corpo, non indugiava a ricorrere alla chirurgia estetica.
Qualche anno più tardi, quando frequentavo già l’università, venni a sapere che proprio la sua vanità l’aveva portata alla morte. Uno shock anafilattico, in seguito all’ anestesia totale, non le avrebbe concesso il risveglio, dopo l’ennesimo intervento. Mi ricordo il commento che fu fatto allora:
- Sarà comunque morta felice, coerente con l’ideale di bellezza!
In contrapposizione a lei, l’altro grande personaggio, la professoressa di Inglese, anch’essa responsabile della mia formazione, completamente diversa da quella di storia.
Afflitta dalla paralisi infantile, trascinava il corpo con le sequele della malattia. La sua andatura claudicante arrivava a passare inosservata rispetto alla gestualità delle mani, impedita quasi completamente dai movimenti del braccio destro. Se la cavava come poteva nel compito di aprire il diario di classe per fare l’appello, così come per sfogliare e trovare la pagina del libro con l’argomento del giorno. Non si faceva aiutare da nessuno e disprezzava chi la trattava con pietà. Eravamo tutti attenti a non toccare la sua suscettibilità, ma lei non ha mai dato dimostrazione di intolleranza, nemmeno per i piccoli scherzi a cui i più spiritosi la sottoponevano.
La vista nemmeno le era stata risparmiata dalla malattia, motivo che giustificava l’utilizzo di occhiali, spessi, proprio come i miei.
Nonostante tutta quell’apparenza e condizione, entrambi precarie, era un’eccellente insegnante, assidua e presente anche nei momenti più particolari di ognuno di noi, interessandosi in maniera materna del nostro stato d’animo, invitandoci a fidarci di lei come persona di esperienza che comprendeva ogni tipo di malessere.
Oltre ad approfondire la materia con dei saggi autorevoli, ciclostilati, perché non erano alla nostra portata economica, si fermava spesso a discutere di argomenti come il cinema, il teatro, la tv, i libri.
Non mi dimentico mai la sua profonda ammirazione per Bette Davis. Seguiva la carriera della diva di Hollywood come una fan delle più appassionate, non perdeva mai un film e ci pregava di avvertirla se venissimo a sapere di qualche esibizione in tv, per la quale era disposta a trattenersi sino a tarda ora. Aveva imparato ad amare il lavoro dell’attrice quando era una ragazzina e il padre la portava al cinema. Poi le rimase la passione e, nonostante avesse già visto tutti i suoi film svariate volte, non rinunciava alle reprise – seconde, terze, quarte visioni - e le rincorreva come il cane rincorre il gatto.
Tutto il suo modo di essere era così paradossale con ciò che faceva e rappresentava che m’incuriosiva molto. In classe osservavo ogni suo gesto, ogni sua parola. Volevo capire la profondità dei suoi sentimenti che le avevano permesso, in quelle condizioni estreme di vita, con un’apparenza tutt’altro che gradevole, di conquistare il cuore di un uomo, sposarlo ed avere dei figli, i quali cresceva senza far mancare nulla, sia dal punto di vista umano che dal punto di vista economico. Una vendetta al destino crudele che l’aveva legata fisicamente ad una gestualità anomala.
Era molto giusta e leale. Non apponeva voti alti senza che questi fossero seguiti dalla parola merito. Non aveva pregiudizi di nessun genere e non accettava che ci fossero nei suoi confronti né nei confronti di chiunque altro. Diceva anche che la menomazione non toglie la furbizia e la cattiveria alle persone, perciò dovevamo fidarci solo dei risultati. Era quello che rendeva qualunque persona “normale”.
Amava molto i gialli ed una delle sue autrici preferite era Agatha Christie della quale collezionava tutti i libri.
Diversamente dalla professoressa di storia, di lei non ho più avuto notizie. Mi rimane ciò che mi ha insegnato, oltre l’inglese, che a volte il bello fa più paura del brutto e che sono proprio gli esseri umani a rendere la vita piena di ostacoli.
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